Le mostre fotografiche a tema si suddividono in due categorie: quelle cosiddette collettive nate dall’accostamento delle opere di autori diversi che hanno lavorato sugli stessi temi e quelle incentrate su un tema forte attorno a cui sviluppare un discorso. E’ questo il caso di “Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni”, la mostra curata da Diana Dufour, direttrice di Le Bal a Parigi, produttore della mostra e del catalogo con Photographar’s Gallery di Londra e Netherlands Foto Museum di Rotterdam esposta a Torino fino al 1 maggio negli spazi di Camera, Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 8.
Il titolo italiano è suggestivo e immediato anche se un po’ aggira il tema centrale che quelli inglese e francese “Images of Convinction. The Construction of Visual Evidence” e “Images à charge. La construction de la preuve par l’image” invece affrontano pienamente. Già, perché qui siamo di fronte a un tema centrale, quello dello statuto della fotografia che, nata in pieno Positivismo, è stata ben presto considerata “oggettiva” e come tale portatrice di una verità intrinseca in quanto scientificamente dimostrata. Inutile dire che la fotografia possiede una soggettività così marcata – è il fotografo a stabilire quando, che cosa e come inquadrare o meno – da escludere ogni identificazione con la verità, anche se è vero che è il mezzo più vicino alla veridicità perché sembra riportare la realtà in modo molto più affidabile di quanto non facciano la pittura o la scrittura. Seguiamolo, dunque, questo cammino nel percorso di questa bellissima mostra che si apre – sembra un omaggio a Torino che la custodisce – con la Sindone, il misterioso lenzuolo su cui sono impressi i segni in negativo (!) di un corpo che la devozione popolare ben orchestrata dalla Chiesa continua a riconoscere come quello di Cristo nonostante si sia dimostrato che l’oggetto risale al Medioevo.
Le bellissime fotografie realizzate nel 1898 da Secondo Pia sono, tuttavia, la documentazione ancora fortemente suggestiva di un omicidio e come tali aprono giustamente la mostra perché del delitto non sono la prova ma la costruzione di quest’ultima. Tutto è più chiaro quando si entra nel vivo delle undici tappe che, dal 1903 al 2014, raccontano di come la fotografia sia diventata strumento indispensabile agli inquirenti e non imposta che questi fossero poliziotti che si aggiravano sulle scene del crimine alla ricerche di elementi lasciati dai colpevoli o storici posti di fronte a terribili crimini contro l’umanità. E’ proprio un funzionario della polizia parigina, Alphonse Bertillon, a inventare all’inizio del secolo un sistema per piazzare sopra i cadaveri un alto treppiede così da permettere alla fotocamera di realizzare riprese azimutali da incollare poi in apposite schede dotate di riferimenti spaziali (alla base c’era una base millimetrata) e notazioni per ogni “Affaire”. Ancora più suggestive le immagini provenienti dalla collezione di Rodolphe Reiss, chimico e fotografo svizzero che nel 1906 fondò nell’Università di Losanna la prima cattedra di “Scienza forense”: le sue immagini di oggetti, tracce, orme, impronte digitali nella loro cruda oggettività per un verso mostrano “ciò che non è visibile ad occhio nudo” e per l’altro assumono una loro imprevedibile estetica. Decisamente più coinvolgenti, purtroppo, le immagini dei grandi crimini dell’umanità come quelli compiuti nei campi di stermino nazisti mostrate durante il processo di Norimberga per vedere le reazioni, peraltro modeste, dei gerarchi. Qui gli interlocutori sono gli storici cui la fotografia fornisce documenti importanti, compresi quelli realizzati su indicazione degli stessi responsabili dei crimini. Colpiscono, ad esempio, i tanti ritratti in primo piano realizzati negli anni delle purghe staliniane a uomini e donne condannati a morte e poi riabilitati come raccontano le didascalie complete di breve biografia che le accompagnano, ulteriore riprova che la fotografia in quanto tale direbbe poco senza le indicazioni che le connotano storicamente.
E il dopoguerra? Mai termine è sembrato più inadeguato come dimostrano le riprese agghiaccianti del villaggio di Koreme nel Kurdistan irakeno cancellato con tutti i suoi abitanti nel 1988 da Saddam, le fotografie solo apparentemente asettiche del totale abbattimento con i bulldozer nel 2008 delle case di Gaza scientemente effettuata dall’esercito israeliano già responsabile sessant’anni prima della distruzione di insediamenti beduini nel deserto del Negev, la video-testimonianza di un attacco con droni effettuato nel 2012 contro una regione ribelle del Pakistan. Insomma, una bella mostra che fa pensare e viene da dire: che ne sarebbe della conoscenza storica contemporanea senza la fotografia?
Roberto Mutti