Era il 1985 e Milano ospitava, per festeggiarla, una fotografa che aveva appena ricevuto a New York il premio più prestigioso per un fotoreporter, lo Eugene Smith. Era la prima europea a vincerlo – ex aequo con l’americana Donna Ferrato – ma lei si comportava come se fosse stata invitata a rendere omaggio a qualcun altro.
Letizia Battaglia era fatta così: se ne stava lì a fumare (allora si poteva farlo dappertutto, altri tempi), rispondeva con garbo alle domande di noi giornalisti e si teneva in spalla la fotocamera manco fosse una semplice appassionata capitata lì per curiosità. Era la prima volta che la incontravo e mi colpì subito il fatto che aveva la capacità di “riempire” la sala. Era inevitabile osservarla, cogliere quegli sguardi acuti, ascoltare le sue parole mai banali.
Allora non lo sapevo ma la sua caratteristica più evidente era già da quel tempo la coerenza grazie alla quale si stava costruendo una carriera fatta di molte cose – l’impegno sociale, l’entrata in politica, le imprese editoriali con le Edizioni della Battaglia, gran bel titolo, le incursioni nel cinema – senza per questo abbandonare mai quella fotografia che aveva iniziato ad usare proprio a Milano quando alla redazione de Il Giorno con cui collaborava da giornalista le chiesero di aggiungere immagini ai suoi testi.
Teniamo presente questo perché definire Letizia Battaglia, come hanno fatto molti titolisti per ricordarne la scomparsa, “fotografa che ha combattuto la mafia” è decisamente limitativo. Non perché non abbia realizzato, con Franco Zecchin che a lungo l’ha accompagnata anche nella vita, immagini straordinarie su quel tema, ma perché è stata molto di più. Legata, come ogni vero siciliano, da un rapporto di amore-odio per certi aspetti della sua terra, a una cosa non ha mai ceduto: alla retorica.
Per capirlo basta vedere le sue prime fotografie asciutte ed essenziali scattate alla Palazzina Liberty occupata da Dario Fo e Franca Rame, basta osservare come alternava ai servizi per il quotidiano L’Ora di Palermo (in quelli sì che c’erano i morti ammazzati dalla mafia) ritratti affettuosi degli abitanti della sua città, basta osservare con attenzione il garbo con cui riprendeva le donne e, soprattutto, i bambini.
Attraversata da una grande passione, Letizia Battaglia era una combattente che sapeva accostare all’emotività quel distacco razionale che si ritrova in tanti intellettuali siciliani. Bello ripensarla sul set di Franco Maresco in quel corrusco “La mafia non è più quella di una volta” dove, senza fare sconti, prende atto di quanto la cosiddetta primavera palermitana avesse perso slancio di fronte al malefico qualunquismo strisciante di tanti. Eppure, il suo senso civico non l’ha mai abbandonata: quando nel 2019, in occasione di una mostra che evocava la Strage di piazza Fontana, si era prestata ad essere intervistata da Pierluigi Mutti, Letizia era comparsa alla Triennale di Milano, si era seduta di fronte alla grande scalinata dell’atrio di ingresso e aveva risposto con la precisione che la caratterizzava mettendo a fuoco i ricordi di quel terribile 12 dicembre. In un attimo lo spazio si era affollato di gente che l’ascoltava con attenzione.
Così sono tornato a quel 1985 e in lei ho rivisto quello sguardo, quelle parole precise, quella sua capacità magnetica di “riempire” la sala con la sua presenza.
Roberto Mutti