I novant’anni Carla Cerati li ha sfiorati prima di andarsene in silenzio – era combattiva ma non del tipo che urla e strepita, convinta che la razionalità ha le sue carte da giocare anche per sottolineare ogni sdegno – lasciandoci in eredità molti ricordi in chi l’ha conosciuta e molti libri a chi ora la vuole scoprire. Libri scritti, perché ai romanzi si era dedicata con successo “scomparendo” ciclicamente da Milano per rifugiarsi a scrivere in Liguria, ma soprattutto volumi fotografici che le avevano riservato un ruolo importante nella storia della fotografia italiana.
Una reflex, una pellicola in bianconero e tanta curiosità: così aveva cominciato negli anni Sessanta cimentandosi con un tema difficile ma affascinante come la fotografia di teatro. Quelle prime esperienze sulle scene del regista Franco Enriquez le sarebbero venute buone anni dopo quando si sarebbe misurata con il Living Theatre (la più innovativa e sconvolgente compagnia di teatro d’avanguardia americano) che era arrivato a Milano con spettacoli di grande audacia estetica e politica. Così, emersi dal buio, i ritratti di Julian Beck e Judith Malina sono diventati immagini indimenticabili per chi quegli spettacoli li vide e per chi ora le osserva come documenti importanti. Nel frattempo girava per Milano, si soffermava sugli studenti all’uscita di scuola, dava spazio alla quotidianità, raccontando così con garbo e acume i fermenti della sua città fino ad arrivare alle manifestazioni del fatidico Sessantotto.
E’ proprio in quell’anno che esce da Einaudi un libro realizzato a quattro mani con Gianni Berengo Gardin che esplode come un caso: “Morire di classe” si chiama e raccoglie un’inchiesta sui manicomi che è anche una denuncia sul loro stato che servirà molto nella campagna lanciata dal dottor Basaglia per chiuderli definitivamente per legge. Donna di mondo e amante dell’arte, Carla Cerati sapeva osservare tutto con occhio ironico e il successivo libretto “Mondo cocktail” del 1974 racconta la mondanità milanese colta nei tanti vernissage che frequentava da osservatrice interessata. Al nudo aveva poi dedicato una ricerca pubblicata nel 1978 da Mazzotta: “Nudo di donna” era allora uno sguardo diverso, secco, essenziale, morbido e mai accattivante che indagava nel corpo femminile con una visione alla Weston. Bastano questi tre libri (altri ne ha realizzati come la monografia “Scena e fuori scena”) per raccontarla come personaggio pubblico. A noi piace però ricordarla per la sua grande passione civile, per quelle lunghe chiacchierate dove si parlava degli anni delle rivolte studentesche e operaie senza però nostalgia, per quello sguardo acuminato con cui raccontava della notte che, senza conoscerci, avevamo condiviso alla Facoltà di Architettura di Milano occupata dove il Living Theatre aveva messo in scena il suo lunghissimo spettacolo-performace “Paradise Now”.
Roberto Mutti